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La bellezza che educa
- 7 Marzo 2016
- Posted by: Laboratorio Didattico
- Category: Blog & News

A cura della Dott.ssa Valentina Filippi
Psicologa-Psicoterapeuta
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà.
All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre.
È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore” (P.I.)
Cosa succede effettivamente quando osserviamo un’opera d’arte? Cosa stimola i nostri sistemi emozionali di fronte ad un’immagine considerata bella? La risposta arriva dalla Neuroestetica, la disciplina che nasce nel 2001 in seguito alla pubblicazione di un articolo del neurobiologo S. Zeki dal titolo “The neurology of kinetic art”. Questa disciplina indaga le strutture neuronali implicate nella fruizione dell’opera d’arte e del bello e si pone l’obiettivo di studiare la predisposizione umana per la proporzione e l’armonia delle forme.
Nell’antica Grecia il concetto di bello è stato al centro della speculazione di quasi ogni filosofo, raggiungendo il suo apice massimo con Platone per cui il bello era l’Idea perfetta ed eterna. Nel Medioevo la bellezza comincia ad assumere un significato spirituale e ad essere pensata in connessione al buono e al vero. Nel XVII sec., il bello diviene oggetto di studio di una disciplina a sé stante: l’Estetica. Il contributo più interessante però lo dobbiamo a Kant che nella sua Critica del Giudizio ha caratterizzato il bello come universale, necessario, senza utilità e senza un fine.
Dopo la scoperta dei neuroni specchio (neuroni responsabili del processo imitativo, del riconoscimento delle intenzioni altrui e dell’empatia) avvenuta nel 2005, G. Rizzolatti e V. Gallese hanno formulato un’ipotesi di studio riguardo, appunto, la ricerca delle coordinate d’accesso al fenomeno estetico a partire dalle reti neurali. Il gruppo di ricerca di Parma (2007) è infatti riuscito ad isolare le aree neuronali capaci di attivarsi di fronte ad una visione armonica e di produrre in noi l’emozione corrispondente. L’esperimento è stato effettuato con l’ausilio di tecniche di brain- imaging ed è stato condotto su persone a cui sono state fatte osservare delle opere d’arte originali e dei falsi artistici. Le immagini hanno evidenziato l’attivazione automatica di alcune aree del cervello visivo, delle aree orbito frontali e dei centri emozionali del sistema limbico, di fronte alla visione delle opere d’arte originali; le stesse aree rimanevano invece disattivate durante la visione delle opere falsificate.
La percezione è sempre un processo attivo: il cervello non è un semplice registratore , piuttosto gli stimoli visivi, come quelli uditivi, vengono acquisiti, elaborati, confrontati con i dati e le conoscenze presenti in memoria, fino ad arrivare ad una interpretazione in termini di significato e di gradevolezza/sgradevolezza.
Le recenti scoperte sul cervello visivo, tra cui prima fra tutte quella dei “neuroni specchio”, sostengono questa tesi e ci dicono che il meccanismo di “simulazione incarnata” nell’uomo funziona anche nel caso di azioni simulate.
Nel 2007 il neurobiologo Vittorio Gallese dell’Università di Parma ha collaborato con lo storico dell’arte David Freedberg della Columbia University di New York ad un esperimento di fondamentale importanza, pubblicato su Trends col titolo di “Motion, Emotion and Empathy in Aesthetic experience.
Ponendo degli osservatori dinanzi all’immagine di uno dei quattro Prigioni di Michelangelo – la famosa scultura “incompleta” dello schiavo detto Atlante, è emerso che la risposta empatica è valida anche davanti all’opera d’arte rappresentativa: il cervello ha riprodotto in termini motori il movimento di torsione del busto della statua.
Chiunque, osservando un’opera d’arte, sta inconsapevolmente entrando in empatia con essa a livello cerebrale: l’arte è quindi un linguaggio che non conosce limiti.
Educare alla bellezza, di un paesaggio, di un ambiente, dello spirito, di valori, di atti crea arricchimento interiore, struttura un modello complesso di apprendimento,
“Tutto ciò che penetra nell’intimo dell’anima umana la forma e la educa […] Ogni contatto con gli uomini, il loro esempio, il loro comportamento verso i giovani e verso gli altri sono di grande efficacia formativa anche se non ve ne è la minima intenzione” .
Educare alla bellezza sviluppa la capacità di empatizzare che trascina con sé la capacità di ascoltare e comprendere l’altro anche se diverso, qualità tanto utile quanto rara ai nostri tempi. Rivivere soggettivamente lo stato d’animo dell’altro non ha per obiettivo la comprensione attraverso le chiavi della conoscenza oggettiva e nemmeno la gratificazione del bisogno di conoscenza dell’io; esso ha per finalità invece la comprensione, l’entrare nel vissuto altrui per condividere stando accanto, senza giudicare.
L’empatia apre a vasti orizzonti di conoscenza intersoggettiva, aiuta a crescere, a comprendere.
Questo tipo di educazione ha ampi spazi di applicazione in ambito clinico, ma fondamentale sarebbe l’interesse da parte della scuola e di altri contesti di formazione e di socializzazione.